Proviamo a stare… UNA SETTIMANA SENZA SOCIAL.

Ci sono The Social Dilemma e Black Mirror. E poi c’è la realtà quotidiana, dove facciamo i conti personalmente con il nostro rapporto con i social network. Se già il cinema e le serie tv si rivelano alleati preziosi per conoscere le sempre nuove dinamiche sociali che la tecnologia consente e facilita… l’antropologia è la scienza che riflette, contestualizza e mette ordine nel grande turbinio delle pratiche contemporanee della comunicazione.

Non demonizzare, ma responsabilizzare. Questa è la strada costruttiva indicata dal libro Una settimana senza social – Per un’educazione digitale per lasciare che gli adolescenti scoprano qual è il giusto equilibrio nell’utilizzo dei social network, sviluppando una coscienza critica. Autrice del testo pubblicato per le Edizioni San Paolo è Angela Biscaldi, professoressa associata di Antropologia Culturale all’Università Statale di Milano, che lo ha redatto a partire da un’intensa attività di ricerca sul tema e con l’obiettivo di rendere conto di un particolare esperimento condotto con 46 studenti di un liceo di Crema, ovvero quello evidenziato nel titolo: chiedere ai giovani partecipanti di astenersi per 7 giorni dall’uso dei social network e di WhatsApp (applicazione di messaggistica considerata un ibrido, vista la possibilità di condividere file, audio e postare stories).

Una rinuncia proposta «come strumento per stimolare la riflessività, spingere i ragazzi a prendere consapevolezza delle motivazioni meno ovvie, più inaccessibili, delle loro pratiche comunicative e a riflettere sugli effetti di queste nella loro vita affettiva e relazionale in senso ampio». 

Oggi alle ore 17 è in programma la presentazione ufficiale del libro, in diretta streaming (clicca qui per la replica) sulla pagina Facebook della Libreria SanPaolo di Roma (@libreria.sanpaolo.sangiovanniroma), moderatrice Marzia Vacchelli (docente e formatrice del liceo Gambara di Brescia). Nel frattempo ho fatto una chiacchierata con l’autrice.

Angela, gli adolescenti con i quali ti sei confrontata erano liberi di interrompere il percorso in qualsiasi istante, semplicemente spiegando la motivazione della rinuncia su un diario (o videodiario). Solo 3 soggetti lo hanno portato a termine. Te lo aspettavi? 

Prevedevo di peggio e ci tengo anche a sottolineare che non si tratta di un dato da interpretare in modo sensazionalistico: vanno piuttosto indagate le dinamiche che portano a questo risultato e oltretutto mi preoccupa molto di più un altro numero, quello di chi non ha voluto nemmeno provare a confrontarsi con l’astensione. Ben 10 ragazzi hanno rinunciato in partenza, questo è da considerarsi un fallimento che ha a che fare con la scuola e le famiglie, quindi insomma è il mondo degli adulti a doversi interrogare sulle responsabilità della mancanza generalizzata di capacità critica.

Come è nato l’esperimento?

Ci ragionavo da tempo, poi è stata la sintonia con la professoressa Alba Caridi del liceo di Crema a renderlo possibile nel modo giocoso e costruttivo che desideravo, senza quello scetticismo e quell’arrendevolezza degli adulti che spesso frenano iniziative di questo tipo.

Il sottotitolo è «Per un’educazione digitale» e nel libro si spiega che «la settimana» è stata replicata altrove, in autonomia, tuttavia spesso «senza essere compresa nel metodo e nei fondamenti educativi». Perché?

A causa dell’ossessione per il controllo e del proporre alternative all’utilizzo dei social, per  quella «paura della noia» della quale soffrono gli adolescenti, che spesso nasce dall’abitudine genitoriale a riempiere le loro vite di impegni e svaghi organizzati fin dall’infanzia. Quando mi chiedono di rifare l’esperienza, dico: fatela da soli, a costo zero, l’importante è proporre 7 giorni di astensione sulla base della fiducia, senza controlli o sanzioni. E senza indicare alternative per trascorrere il tempo libero.

Sei anche una madre (significativa la dedica che apre il testo: «A mio figlio Giovanni, quando mi chiede di essere guardato»). Rivolgendosi agli altri genitori di oggi, da dove consigli di partire per riflettere sull’uso dei social network?

Innanzitutto dal modo in cui li utilizziamo noi adulti, spesso acritico. Poi da una presa di coscienza della necessità di una separazione dei tempi (quello disconnessi non è garantito, nelle chat troppo spesso si comunica aspettandosi tutto e subito) e dei ruoli: chi riveste incarichi ufficiali deve usare canali di comunicazione e linguaggi adeguati.

E le grandi aziende che gestiscono i social network… che responsabilità hanno?

Potrebbero essere centrali nella questione, tuttavia pare che a contare sia solo il profitto.  Possiamo trovare conforto nella prospettiva fornita dall’antropologia: potrebbe sembrare che siano le piattaforme a definire gli schemi della comunicazione, invece, come dimostrano progetti di ricerca come «Why we post» di Daniel Miller (University College London) esse si rimodellano a seconda di come gli utenti le utilizzano, a testimoniarlo sono i 9 atteggiamenti diversi rilevati in altrettante zone del mondo prese in esame.

Concludiamo facendo autocritica: quali errori già commessi possiamo evitare?

La deriva securitaria, che spaventa, e quella celebrativa, che mitizza la tecnologia: l’attenzione va rivolta ai protagonisti dell’agire educativo (genitori, insegnati, giovani) e alle piccole prassi quotidiane.