«Io resto». La prima ondata vista dall’interno di un grande ospedale.

«Nei reparti Covid non ci si ferma mai, gli operatori sanitari sembrano api che volano di cella in cella per assistere i malati».

Un’immagine simbolica, evocata dal regista veronese Michele Aiello, entrato nel reparto Malattie Infettive degli Spedali Civili durante il picco d’emergenza della primavera scorsa, per documentare la fase più acuta dell’emergenza.

Il signor Elio si fa radere la barba da un operatore sanitario della delegazione albanese, nel reparto di Malattie Infettive

Oggi, mentre le incognite sulla fine della pandemia continuano a tenerci in scacco, è importante cominciare a rielaborare i traumi e i lutti causati dall’emergenza Covid-19, come anche non dimenticare il formidabile impegno di tutti gli operatori sanitari chiamati ad una missione straordinaria quando inedita.

È così il cinema a venirci in soccorso, grazie al documentario «Io resto», affresco nitido della realtà ospedaliera realizzato da Aiello osservando ciò che accadeva durante la prima ondata del virus, nella primavera 2020, in uno dei nosocomi più grandi d’Europa, ovvero gli Spedali Civili di Brescia. (Qui il trailer).

«È un titolo viscerale – racconta Michele – che spero ogni spettatore possa interpretare a modo proprio. Allude alla presa di posizione forte e umile del personale sanitario nel rimanere sul posto di lavoro e affrontare una malattia sconosciuta a nome di tutta la comunità. Per me significa: noi ci siamo e non ci muoviamo da qui».

Una pellicola molto attesa, finalmente in uscita dopo il successo ai festival: all’estero, con la prima visione al prestigioso Visions du Réel di Nyon, barometro del cinema documentario contemporaneo, e in Italia al Biografilm di Bologna, dove è stato premiato come miglior film.

Il sorriso della signora Giusy, mentre comunica con l’infermiera Noemi, nonostante il vetro

Il doc è prodotto dal regista con il direttore della fotografia Luca Gennari e ZaLab (noto collettivo che vede come capofila Andrea Segre) in collaborazione con RCE Foto Verona e Comune di Brescia. È stato girato nell’arco di un mese da una troupe ridotta all’essenza – solo Aiello e Gennari – per muoversi con discrezione all’interno dei reparti Covid e far scattare quella magìa, tipica del cinema d’osservazione, che consente il piccolo paradosso di esserci, ma «sparire» dinanzi ai soggetti filmati, per testimoniare la realtà senza fronzoli e far successivamente scattare l’empatia negli spettatori. È nato così un film corale, che fa emergere tutta l’umanità della relazione di cura in un momento critico, muovendosi tra il reparto Malattie Infettive, le Terapie Intensive Covid, il Pronto Soccorso e le tende per il triage.

«Sono venuto a Brescia con il desiderio di documentare quanto stava accadendo, con una prospettiva storica e focalizzata su un racconto lento, capace di scavare nella complessità. Ho provato la sensazione che, nonostante il forte impatto dell’emergenza, la crisi in futuro sarebbe stata dimenticata e questo mi ha spinto a catturare quei momenti. Sebbene fossi già convinto della necessità di raccogliere testimonianze per i tempi a venire, non mi aspettavo di vivere, oggi, a pochi mesi di distanza un “colpo di coda” dell’emergenza come quello che stiamo vedendo accadere».

Michele Aiello (a sx) e Luca Gennari durante le riprese all’interno degli Spedali Civili di Brescia

«Quando giro un film – spiega Aiello – cerco sempre di renderlo universale. L’ho fatto con molta intensità e tenacia in Io resto. Significa che il pubblico, che sia a Roma, a New York o a Rio de Janeiro può ritrovarsi e riconoscersi nella storia di Brescia. Desidero tanto che questa città abbia un ruolo più importante di quello di raccontare alle future generazioni la propria storia, io vorrei che diventasse la custode e l’ambasciatrice di una memoria collettiva che può raccontare l’Italia intera. E spero che la comunità bresciana mi accompagni durante la diffusione del film con questo stesso spirito».

A corollario dell’interesse per l’approfondimento, una scintilla emotiva ha mosso il regista: «Mia madre Silvia è pediatra, sono sempre stato affascinato dalla sua dedizione nel curare i bambini. Una volta entrato in un reparto Covid mi sono reso conto che ciò che volevo raccontare era lo sforzo eccezionale del personale sanitario di rompere l’isolamento dei pazienti confinati nelle stanze. Il contatto umano per loro era una sorta di dovere morale, per superare con lo spirito il filtro dei dispositivi di protezione individuale che permettevano ai degenti di vedere solo gli occhi di chi li curava».