Come DON’T LOOK UP ci fa alzare lo sguardo senza catechizzarci.

Non guardare su.

Semplice come un #hashtag, imperativo come un “suvvìa non guardare!”

Il titolo del nuovo film di Adam McKay ci esorta a vivere secondo l’adagio “andrà tutto bene”, semplicemente tradotto in uno slogan diverso, che incita a non guardare nella direzione dei possibili problemi che, tuttavia, ci (ri)guardano.

Quali sono? Scegliete voi: sullo schermo va in scena la storia di una cometa che gli scienziati calcolano sia destinata a colpire la Terra, ma il meccanismo narrativo potrebbe funzionare benissimo sostituendola con altre minacce. Come spettatori e critici stanno facendo in questi giorni. Ed è proprio questa possibilità di risultare un archetipo la peculiarità che rende il film un gioiello capace di catturare lo spirito del nostro tempo.

Non guardare al futuro finisce con l’annientare il presente. Vero, ma sarebbe troppo facile riassumere Don’t Look Up ricercandone una morale, che sia quest’ultima, generica, o qualcosa di più realistico, come una metafora della pandemia o della crisi ambientale, per citare due delle letture più in voga del capolavoro.

Sì, dopo essermi sbilanciato con gioiello, mi sono spinto a scrivere addirittura questo termine, ca-po-la-vo-ro, una parola che subito trasforma una recensione in elogio, senza mezze misure, sebbene in contrasto con un’accoglienza della critica tiepida, quasi snob. Forse perché non serve un telescopio per capire che è un film pensato per il pubblico (e ci mancherebbe: il cinema deve saper parlare a tutti!): dal cast stellare che pare una squadra di fantacalcio pensata per gli Oscar, al ritmo incalzante, passando per la cura estrema di titoli di testa e di coda, questi ultimi con funzione addirittura narrativa (belli i dettagli degli oggetti che evocano i personaggi) e fanno da ponte a una chiusa ironica che rilancia il film nell’iperuranio della comicità sagace di creativi come Steve Cutts (se avete apprezzato il film non perdetevi i suoi corti, soprattutto Happiness) e certifica che anche la commedia americana ha la capacità e il coraggio di ibridarsi con il disaster movie guarnito di ironia e riuscendo a far sorridere delle ingenuità umane. Per Netflix un altro colpo a segno dopo il successo del mockumentary Death to 2020, il film-evento di fine anno che nessuno avrebbe mai sperato avesse un sequel, e invece eccoci oggi dinanzi alla hompege della grande N rossa a veder spuntare Death to 2021. Perché se non c’è fine al peggio, almeno possiamo provare a disinnescare la dilagante polarizzazione di opinioni attraverso il sorriso. 

Al netto delle scelte produttive e del contesto che ha generato Don’t Look Up, un bel film non si costruisce (solo) a tavolino: serve la giusta alchimia per far reagire gli elementi, insomma, non basta la formula: bisogna pronunciare le parole magiche con la giusta determinazione, per smuovere le coscienze: Adam McKay è riuscito a farlo e per questo ha catturato l’attenzione del pubblico. Come? Scrivendo una sceneggiatura che non è votata a catechizzare gli spettatori e non li tedia con pipponi catastrofici. E soprattutto facendo perno su due protagonisti credibili, lontani dall’aura dell’eroismo e non esenti da difetti, che lottano contro il sistema sì, ma compiendo errori e cadendo in alcune delle tentazioni disseminate sul percorso.

Il Male, nel frattempo, è rappresentato dal pressappochismo della politica e dei media generalisti, interessati solo a consensi e click, nel frullatore dei social media, pronti a trasformarsi in veri e propri mondi orchestrati da pochi, come ci ricorda il personaggio più estremo del film, founder di una potente società del settore Tech. Un panorama che potrebbe sembrare, questo sì, davvero catastrofico e sovraccarico di bizzarrìe, se il mondo reale non ci riservasse, ciclicamente, eventi come l’assalto al Campidoglio avvenuto a Washington nel gennaio 2021 o, per restare nella stretta cronaca, le tensioni tra la Cina ed Elon Musk a causa del reiterato rischio di collisione degli astronauti cinesi della stazione di Tiangong con alcuni dei 2mila satelliti della costellazione in via di espansione della StarLink (una divisione della Space X destinata a fornire l’accesso globale ad Internet, grazie ad una rete futura di 12mila satelliti).

Insomma, sia nello specchio di fatti già “storici” che nell’evolversi dell’attualità, è il lato evocativo di Don’t Look Up a risultare la vera essenza emblematica e dirompente del lungometraggio: ognuno può vedere nella cometa che si avvicina il simbolo di un pericolo imminente a proprio piacimento, che sia il Climate Change, il Covid, l’ottusità dilagante veicolata dalle fake news, il complottismo da social network, il rapporto del nostro tempo con il consumo di massa (in particolare in una battuta di DiCaprio sul nostro ”avere tutto”) o altro, ad libitum.

Melancholia (Lars von Trier, 2011)

Oppure possiamo vedere nel meteorite, pur così concreto, una grande metafora che fornisce al film un’originalità capace di renderlo un onesto grande omaggio al cinema del passato, più o meno recente, a giudicare dalla summa di titoli che non vengono citati esplicitamente, ma riecheggiano nello scenario evocato da McKey, che senza cannibalizzarne le idee ne rispolvera le intuizioni per rivitalizzarle: da Quinto Potere a Downsizing, passando per Sesso & Potere, Wall-e e Melancholia.

Non guardiamoli, orsù. O magari sì, prima che ci riguardino troppo.