Che ruolo hanno fotografia, cinema e crossmedialità nei conflitti?
Prima dell’invenzione della fotografia c’erano solo macerie, ferite e racconti dei reduci a testimoniare la violenza e le ragioni delle guerre. Ricordi sintetizzati da letteratura e storia, mentre l’arte ne creava l’iconografia tramite dipinti epici. Tra Ottocento e Novecento le immagini fotografiche s’imposero come prove storiche dei fatti. Ma era davvero finalmente la realtà, a rivelarsi agli occhi delle masse? Verità, pacifismo, eroismo, etica del reporter, impatto propagandistico delle immagini shock: questi i dilemmi del passato ancora aperti, che oggi fanno i conti con digitale e intelligenza artificiale, ponendo nuovi cruciali quesiti.
Il percorso a seguire è la traccia di un incontro proposto all’interno della Rassegna Cinema per le Scuole del Nuovo Eden.
1. CHI TESTIMONIA LE GUERRE?
In prima linea (Francesco Del Grosso e Matteo Balsamo, Ita 2021) intesse un coro di voci: 13 reporter di guerra si raccontano (comprese due giovani bresciane: Francesca Volpi e Arianna Pagani).
Il documentario ci pone un quesito cruciale, sintetizzata dalla frase finale del trailer: “È necessario un gigantesco atto di fede”.
Si tratta di un’invocazione che solleva il concetto di fiducia. In cosa? Nelle fotografie, verrebbe da dire. Ma sono tutte uguali? Cioè: oggi possiamo considerarle, come un tempo, tutte testimonianze? Scatti capaci di catturare la realtà?
No. O almeno non tutte. Alcune sono solo immagini. Rappresentazioni.
2. FIDUCIA E FAKE
C’è stato un tempo, circoscritto, nel quale ogni fotografia aderiva alla realtà. Presupponeva, dunque, una verità. Un’esistenza della quale farsi prova. Benché, in ogni caso, fosse parziale: la scelta dell’inquadratura delimita una sola porzione di realtà, il punto di vista suggerisce un’interpretazione. Poi, la post-produzione si è imposta come filtro. Fino alle nuove frontiere dell’Intelligenza Artificiale, che può produrre immagini a partire da idee, mostrando situazioni che non hanno un corrispettivo nella realtà.
Se la parola foto-grafia nasce dal concetto di scrivere con la luce, le immagini che possiamo richiedere alle A.I. non hanno niente a che vedere con l’utilizzo della luce per catturare la realtà su un supporto. Equivalgono, di fatto, a dipinti. Sono immagini progettate, sintetiche. Non soltanto nell’accezione del termine che ricorda l’idea di qualcosa di artificiale, bensì come artifici nati dalla sintesi e pronti a sintetizzare la realtà. Proprio come Pierre Sorlin, nel suo illuminante saggio I figli di Nadar (1997), definiva le opere pittoriche: immagini sintetiche.
Sintesi di tanti aspetti, riassunti in un quadro. Fino a comporre un intreccio di micro-storie per restituire la complessità della realtà, come accade nel celeberrimo Guernica di Picasso, divenuto simbolo universale della follia della guerra (tanto da essere esposto alla Nazioni Unite, riprodotto in forma di arazzo).
È curioso, che la tecnologia abbia (ri)condotto anche la fotografia alla funzione di strumento per progettare riassunti della realtà, oltretutto dopo la felice dicotomia introdotta dallo studioso francese, che aveva distinto le immagini sintetiche (pensando in particolare ai dipinti che riassumevano in un unico grande scenario il senso epico delle battaglie), da quelle analogiche, riferendosi proprio a quelle fotografiche, che dall’invenzione della tecnica fotografica (1839) in avanti si erano affacciate in società come novità, supporti estetici dai contenuti meno spettacolari, ma capaci di farsi prove dei fatti.
Prove che, tuttavia, ben presto ci si rese conto che correvano il rischio essere “inquinate” già in fase di scatto.
“Le fotografie – scriveva Susan Sontag – forniscono testimonianze. Una cosa di cui abbiamo sentito parlare, ma di cui dubitiamo, ci sembra provata quando ce ne mostrano una fotografia……Una fotografia è considerata dimostrazione incontestabile che una data cosa è effettivamente accaduta”.
A quanto pare già Fenton, per raccontare le battaglie – quando i tempi di posa molto lunghi non consentivano di cogliere azioni di guerra – quasi a mo’ di scenografo costruì una sintesi della ferocia dei combattimenti modificando la realtà dinanzi ai propri occhi. In pratica, fu artefice di una messa in scena: aggiunse palle di cannone sulla porzione di campo di battaglia inquadrata. Benché a scopo esplicativo, si tratta di una mistificazione della realtà. Della vera e propria progettazione di un’immagine sintetica, benché la procedura fotografica la facesse percepire, una volta divulgata, come analogica.
Annoso problema, insomma, quello della verità. Oggi la stessa cosa, in forma più evoluta e veloce (anche come potenziale divulgazione), accade tramite l’Intelligenza Artificiale. La mostra Beauty Is Everywhere (2023) allestita con immagini realizzate dalla fotogiornalista Barbara Zanon ne è un esempio lampante: nessuna delle immagini che ritraggono persone in scenari di guerra è stata scattata. Nessun soggetto è umano. L’autrice, per innescare una riflessione sul tema, mesi prima aveva già realizzato e divulgato un intero “reportage” ambientato (questo il termine da usare, a questo punto) in Ucraina, senza muoversi da casa, semplicemente con il supporto dell’intelligenza artificiale generativa.
3. LA RESPONSABILITA’ DI (FAR) COMPRENDERE NELL’ERA CROSSMEDIALE
Tutto questo, pare farci scivolare in uno scenario di sospetto. Di sfiducia. Ma come anticipato, il nodo centrale è proprio la fiducia, addirittura la fede.
Si tratta di decidere, in base a parametri (che vanno ricercati), se dare credito alle immagini o considerarle fake. Oggi più che mai, siamo chiamati a riconoscere il grado di attendibilità di quella che ci viene proposta come la realtà.
La possibilità che ciò che ci viene proposto sia artefatto, non può e non deve diventare un motivo di sospetto tale da annientare l’importanza di quel tipo di testimonianze raccolte con coscienza ed etica, che ancora esistono e sono cruciali per comprendere il nostro tempo. Come anche lo saranno in futuro, affinché la Storia Contemporanea sia presa in carico dai posteri. Studiata. Compresa.
È qui che il cinema, si fa spazio d’approfondimento. Arriva in soccorso, con la sua capacità di essere contenitore e organizzatore di immagini. E anche di riflettere su se stesso, diventare spazio di analisi di testimonianze filmate che riemergono dal passato, come l’illuminante Tre minuti di Bianca Stigter (2021).
Certo, nemmeno il cinema è al sicuro da mistificazioni, anch’esso può essere strumento di propaganda o gioco intellettuale (più o meno pericoloso) come nel caso del genere mockumentary (ovvero quel falso documentario che, pur nascondendo il rischio di non essere compreso come tale, soprattutto pensando al futuro anteriore, nasce proprio per proporsi come occasione di riflessione sul linguaggio).
Se per quanto riguarda il mockumentary una delle cautele sarà riuscire a “leggerne” l’inverosimiglianza anche a distanza di anni, a partire da contesti diversi (ad esempio Death of a President, nato come provocazione riferita all’era Bush, potrebbe in futuro sembrare la vera ricostruzione dell’omicidio di un presidente americano, ad uno spettatore poco informato), più gravi danni può farli una narrazione costruita ad hoc per mistificare, sviare l’attenzione. In politica si usa l’espressione wag the dog, per indicare che qualcuno sta usando un espediente per distogliere l’attenzione da qualcosa di ben più importante. È diventata il titolo di un intelligente film di Barry Levinson, che aprì il vaso di Pandora sul tema dei fake in epoca televisiva, ben prima che i social divenissero terreno fertile per il fenomeno.
Tuttavia, si tratta solo di prendere coscienza di dover controllare la fonte, di abituarsi a porsi domande su autori/produttori/distributori, prima di lasciar entrare un film nella nostra dieta mediale. Così da nutrirci in modo sano.
Un antidoto a resta la critica cinematografica, così come l’attività culturale di sale ed editoria streaming, che possono ricordarci che esistono film che sono preziose testimonianze dal fronte (oltre che di vita), come Alla mia piccola Sama (Waad Al-Khateab, Siria 2019), che rende conto tramite filmati homevideo della vita sotto assedio.
Nell’era del web (caratterizzata da overload di contenuti, simultanei e crossmediali) la costruzione di film tramite footage è diventata un’abitudine. Si pensi a quanto l’attacco alle Twin Towers sia stato filmato (e da quanti punti di vista) per poi essere riconsegnato alle cronache e alla storia. Così come ai tanti film che a posteriori hanno raccontato le tante sfaccettature della tragica vicenda.
Questa sovrabbondanza spesso è una risorsa (se ben riorganizzata, con i giusti tempi di riflessione). La velocità, invece, può causare problemi. Ordire tranelli. E Internet ne diventa il palcoscenico. È accaduto con vicenda della foto del cadavere di Bin Laden, dopo la sua cattura, quando da un utente è stata diffusa un’immagine falsa e i maggiori quotidiani, ognuno dei quali morso dall’ansia di dare la notizia primo, l’hanno pubblicata.
4. UNO SGUARDO AL PASSATO: PROPAGANDA e CONSAPEVOLEZZA DEI RIFLETTORI
Quando la divulgazione di contenuti attraverso i mezzi di comunicazione non era un gesto alla portata di tutti passato, il cinema (e la tv) sono stati arene per la propaganda, così come capsule di salvataggio per informarsi.
Rivedere i filmati realizzati ad uso dell’esercito degli Stati Uniti per convincere i soldati e la popolazione che fosse giusto andare a combattere oltreoceano prima della Liberazione, rende l’idea dell’uso dell’audiovisivo a scopo quasi “didattico” nel farsi strumento di consenso.
Anche diffondere la verità dopo l’oblio fu una missione oprata tramite il cinema.
Death Mills, ad esempio, è un cortometraggio americano diretto da Billy Wilder, prodotto dal Dipartimento della guerra degli Stati Uniti d’America e pubblicato nel 1945. Il film è un documentario sulla scoperta dei campi di concentramento nazisti ad opera degli Alleati nel 1945. Destinato al pubblico tedesco per educarli e informarli sulle atrocità commesse dal regime nazista, Wilder racconta che venne accolto con sgomento. La popolazione dei villaggi vicini ai campi di concentramento disertava le sale, dovettero promettere un timbro sulla tessera del pane per far rimanere gli spettatori seduti fino al termine del film.
Il coraggio di Charlie Chaplin:
La lucidità di John Lennon e Yoko Ono: consapevoli dei riflettori presero posizioni di pace.
5. UNA NUOVA CONSAPEVOLEZZA, I MEDIA POSSONO SCHERMARE LE PAURE
Per concludere questo percorso è bene citare l’ultimo, recente, saggio pubblicato dal filmologo Francesco Casetti, Schermare le paure che fin dalla presentazione dell’editore propone una prospettiva lucida e condivisibile, a partire da quanto già emerso in questa panoramica, rispetto alla centralità della critica cinematografica, che ha ancora una funzione peculiare e si propone come soluzione intellettuale ala complessità del contesto attuale.
“L’analisi incrociata della Fantasmagoria (fine del Settecento), del cinema (tra Otto e Novecento) e delle bolle immaginarie in cui ci rifugiamo quando ci immergiamo nel nostro computer (primi anni Duemila) permette a Francesco Casetti di avanzare una provocazione: gli schermi non sono protesi che estendono la nostra vista, ma qualcosa che ci protegge dall’esposizione diretta alle cose e agli eventi. Del resto siamo assediati dalle ricorrenti e crescenti paure di un mondo che minaccia di estinguersi e di estinguerci. Proteggere è un’azione positiva; tuttavia ha un costo. La protezione spesso implica una violenza pari a quella dei pericoli che vuole tener lontano; inoltre spesso limita e quasi soffoca coloro che vuole tenere al sicuro; infine spesso suscita più paure di quanto non ce ne fossero prima del suo intervento. Una concezione degli schermi come media protettivi ci aiuta anche a capire come acquisire una nuova sensibilità adeguata ai tempi che stiamo vivendo”.
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