Di cosa parliamo quando parliamo di critica cinematografica?

Che cos’è la critica? A cosa serve? Cosa significa fare critica cinematografica, oggi?

Per avvicinarci a scoprirlo proviamo a partire da un’altra domanda: chi sono i critici? 

Tante e variegate le possibili definizioni, queste sono quelle date dagli stessi critici italiani, nell’illuminante libro Di cosa parliamo quando parliamo di cinema? a cura di Ezio Alberione (Loggia de’ Lanzi, Firenze 1997). 

Il critico è come un cronista sul fronte di guerra del cinema.
La critica è come un genere letterario.
Il critico può essere tale solo a partire dalla professione di giornalista. Il critico cinematografico è un intellettuale in continua formazione.
Il critico va inteso come “spettatore evoluto”. Giudice e interprete.
I critici non esistono.
Il critico è un ri-autore.
È una persona curiosa, attenta al dialogo.
Il critico come insegnante.
Il critico come mediatore.
Come qualcuno che sappia tutte le info possibili su un film.
Il critico come delegato del pubblico.
Come qualcuno “che spera di viverci”.
Il critico come mediatore affettivo.
Il critico come uno che può essere messo in discussione. 

A questo punto, individuato un identikit del critico, proviamo a metterci nei suoi panni. Vi sarà capitato, insomma, almeno una volta, di consigliare un film ad un amico. Ricordate quale sensazione avete provato? Magari già mentre vedevate quella storia scorrere sullo schermo… pensavate proprio a quella particolare persona, nasceva il desiderio di condividere le emozioni.

Ecco. Se vi è tornato alla mente almeno un episodio di questo tipo, adesso siete pronti. Per cosa? Per ragionare sul fatto che l’attività critica è un’attitudine dell’animo umano. Parte dal desiderio di condividere e si sviluppa cercando di mettere a fuoco i motivi per cui vale la pena consigliare (o anche, al contrario, sconsigliare) un film. E per estensione qualsiasi altra esperienza della vita, beninteso. Del resto il cinema non è che uno specchio, nitido o deformante, della realtà.

E allora, adesso, che si fa? Proviamo a delineare qualche strategia di base per capire come procedere. Non arrovelliamoci tanto su come e cosa scrivere a proposito del film che ha fatto vibrare le corde della nostra sensibilità, piuttosto proviamo innanzitutto a chiederci perché è accaduto.

Una volta individuate queste motivazioni (o semplicemente dopo aver allineato le suggestioni che più ci hanno affascinato), potremo partire per avventurarci verso una lettura critica del film.

Si tratta, dunque, di trovare indizi. Indizi del nostro interesse, campanelli d’allarme che svelano assonanze tra quanto accade sullo schermo e il nostro vissuto (personale o collettivo), oppure tra le vicende o i personaggi dei film ed altre storie (vere o appartenenti alla produzione culturale).

Saranno questi primi indizi ad indirizzarci sulla strada della nostra lettura del film, a scatenare delle intuizioni. Proprio come degli investigatori potremo raccoglierne il più possibile e, mettendoli in relazione, valutare se possono considerarsi prove a supporto dell’ipotesi critica che stiamo sviluppando. Quando accade, siamo pronti per formulare la nostra teoria. Ecco, quindi, nascere la nostra critica cinematografica.

Tutto questo processo è quello che il decano della critica italiana, Morando Morandini (1924-2015), nel suo avvincente libro Non sono che un critico. Il ritorno. (Il Castoro, 2003), definisce come il passo centrale del percorso del recensore, che deve “assolvere 3 compiti principali: informare, analizzare, giudicare, cioè: 1) Descrivere l’oggetto (il film) in questione con eventuali notizie sull’autore, sugli avvenimenti storici che costituiscono il contesto della vicenda o sulla sua origine letteraria o teatrale; 2)  Enuclearne i temi evidenti o latenti, i significati, il discorso, il sottotesto, collegandoli con i film precedenti del regista, se ne vale la pena, o con altri prodotti dello stesso tipo o genere; 3) Formulare il giudizio di valore, graduando consenso e dissenso, elogi e riserve”.

Illuminante il consiglio di Morandini rispetto alla responsabilità di risultare comprensibili ai lettori: “Molti sono gli accorgimenti per essere chiari. Uno dei più sicuri è il ricorso a frasi brevi, ossia una struttura del discorso dove, come direbbe uno specialista di retorica, la paratassi, cioè un rapporto di coordinazione, prevalga sull’ipotassi, cioè un rapporto di subordinazione. In altre parole: evitare i periodi resi complessi da frasi subordinate e da incisi. Nei dialoghi de I Promessi Sposi, per esempio, Manzoni si avvale della paratassi quando parlano gli umili, la gente del popolo, e di complesse strutture ipotattiche quando parlano personaggi di rilievo, come il cardinale Federigo. Nello scrivere su un giornale mettiti dalla parte dei poveri, non dei ricchi e dei potenti”.