LE ∞ MONTAGNE – Dell’infinito cercarsi

Le vette di otto montagne convergono, fino a toccarsi in un punto di fuga. Nasce così una nuova prospettiva per le parole che si fanno immagini: comporre un film sul voler essere tutto, anelare all’infinito.

È la storia di due amici diversi, complementari, ferocemente reali, benché siano anche simboli dell’eterna lotta interiore dell’uomo: quel dilemma tra partire o restare, tra pensare a se’ o condividere, dannandosi alla ricerca di orizzonti da inseguire, o solo da osservare. Accade a tutti, perché la vita adulta inchioda alla necessità di compiere scelte, inevitabili, che ci fanno slittare altrove (se non nello spazio, di certo nel tempo), impercettibilmente, giorno dopo giorno, fino a ritrovarsi ognuno incastrato in un ruolo, fosse pure quello da eremiti, ostinatamente liberi, a qualunque costo (e il prezzo dell’indipendenza, in termini emotivi, talvolta può essere caro).

A incarnare questi tormenti sono i due amici Pietro e Bruno (Luca Marinelli e Alessandro Borghi, coppia d’attori uniti da una vera amicizia, finalmente di nuovo insieme in un film, dopo il dirompente esordio nel cult Non Essere Cattivo di Claudio Caligari, 2015). Un duo di personaggi nati dalle pagine di Paolo Cognetti (qui anche co-sceneggiatore), nell’omonimo romanzo Premio Strega (2017). A dirigere il film una coppia nella vita: i belgi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, lei conosciuta anche per i ruoli da attrice, lui dietro la macchina da presa nei burrascosi Beautiful Boy e Alabama Monroe. Sono rimasti in Valle d’Aosta a lungo, fino a respirarne l’essenza dei luoghi. Hanno vinto il Premio della Giuria a Cannes 2022, con un film coraggioso a partire dal formato scelto, quel 4:3 che dapprima disturba (sacrificando metri quadrati di schermo cinematografico, lasciati al buio, orfani di luce del proiettore), poi, scena dopo scena, convince perché ci obbliga ad assumere un punto di vista preciso, coinvolgendoci in una sorta di claustrofobia controllata, come se ci fossimo rintanati in un rifugio, a guardare le montagne da una finestrella, in attesa del coraggio di uscire per scalarla. È sintomo di un cinema attivo, che propone esplicitamente le proprie regole del gioco e richiede un patto di fiducia agli spettatori.

Un’ulteriore audacia riguarda l’approccio all’immagine-simbolo del libro, quella che dà il titolo all’opera e viene svelata dopo molte pagine. Nel film resta, ma viene spogliata dalla sacralità, raccontata in una scena irriverente, l’unica dove i protagonisti ridono, alticci, goliardici, uniti da una complicità esplicita che è specchio del loro eterno legame di fratellanza, mai troppo affidato alle parole, al limite espresso tramite la fisicità. Trovando lo stesso ritmo nel martellare, mutando anno dopo anno i primi timidi abbracci in un vigoroso stringersi per qualche attimo, Pietro e Bruno risultano finalmente uniti in un’unica, potente, entità: un Giano bifronte che sa guardare sia i monti che l’orizzonte, il qui e ora e l’altrove, il passato che il futuro.

L’immagine-simbolo del libro viene disegnata, da Pietro, per spiegarne la valenza allegorica a Bruno. Osano Van Groeningen e Vandermeersch. Ironizzano sulla forma tracciata in modo sfacciato, quasi a dileggiare il fulcro stesso della narrazione di Cognetti, che è mappa per leggere i personaggi: uno sempre fermo, l’altro in continuo peregrinare. E osano soprattutto fare cinema: perché nella scena Pietro indossa una lampada frontale che, inopportuna, continua ad accecare Bruno durante i loro brindisi e dialoghi notturni nel buoi della notte. Un faro insidioso, che pare non infastidire troppo le pupille di Bruno, ma al contempo metaforicamente ne pungola l’animo, insinuandosi come dubbio nell’intimo delle scelte del montanaro che pensa d’aver trovato l’equilibrio della propria esistenza, senza considerare troppo che si tratta anche di una resistenza. Non riesce ancora a proiettarsi nel domani, nel possibile evolversi della sua scelta di restare, apparentemente solida, che tuttavia non lo mette al riparo dalla precarietà del modulare la propria idea di vita con le relazioni familiari e sociali. Non si può essere “eremiti”, senza rinunciare allo star soli.

Ed è proprio il sole ad arrivare a potenziare il portato delle pagine del romanzo, l’intuizione di regia che accende di senso l’immagine-chiave delle otto montagne: dopo la notte di confidenze e il disvelamento del concetto di otto montagne come cosmogonia dell’esistenza… l’alba fa capolino, oltre la cresta dei monti, e giunge a ricomporre le vite nella vallata in un unico grande “tutto”, senza parole, solo grazie al cinema, al potere del creare immagini eloquenti. Nella lente della macchina da presa, infatti, il sole si scompone (vedi scena d’apertura del teaser) in spicchi simili alle otto montagne citate nelle conversazioni notturne, conosciute grazie a culture lontane, sulle cime dell’Himalaya, e assunte a guida spirituale sulle Alpi, rinsaldando l’umanità in un unico grande popolo, riscaldato e illuminato dallo stesso sole, ma mai nello stesso momento, proprio come Pietro e Bruno, amici inseparabili, ma contigui: l’uno rivolto con lo sguardo a cose e terre lontane, che grazie ai raggi di luce tenta di afferrare anche se si estendono a perdita d’occhio; l’altro fermo, capace di reggere la luce puntata dritta in faccia, determinato ad assorbirne la potenza, quasi dovesse trasformarsi in un albero che sa sopravvivere a tutto, benché non sradicato.

Se l’amico d’infanzia è sempre ipotetico alter ego, possibilità parallela nella quale specchiare la nostra esistenza per trarre un provvisorio bilancio di vita… qui il cinema si fa casa, rifugio per accogliere entrambe le versioni del dilemma identitario che ognuno, crescendo, è chiamato ad affrontare. Una casetta dalle finestrelle in 4:3, proprio come il formato scelto dagli autori per il film, che osa sacrificare l’ampiezza del respiro del grande schermo, perdendo dettagli laterali, per stimolarci ad osservare meglio, a concentrare l’attenzione, a cercare di immedesimarci. A trovare l’altrove più vicino.

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