OPPENHEIMER – Oops, non era un biopic!

A colori e in bianco e nero.

Biografico e corale.

Teorico e sperimentale, proprio come le due anime della fisica sulla quale riflette.

È finalmente esploso il fenomeno Oppenheimer, un film che lotta con i paradossi, per farsi epica e oracolo, al contempo.

Alla roboante attesa – trascorsa con il fiato sospeso divorando trailer e teaser vari, smaniosi proprio come i fisici dinanzi ai test nucleari – si sostituisce ora il tipico ronzio che segue il boato. 

È un lascito gravoso: un appello ad andare oltre allo sgranare gli occhi, come si fa osservando semplici fuochi d’artificio, riconoscendo la chiamata alla responsabilità del provare a comprendere secondo quale logica Nolan abbia fatto deflagrare i diversi pezzi della biografia dello scienziato. 

Ovviamente l’autore ha tentato di ribaltare le regole del biopic, applicando la sua rodata formula (lavorare in contemporanea su diversi livelli temporali, progettando un rompicapo per gli spettatori che amano risolvere gli enigmi narrativi). Sempre ammesso che di genere biografico si possa parlare in questo caso… perché di fatto J. Robert Oppenheimer non è stato tanto delineato come persona, quanto invece studiato al microscopio a mo’ di personaggio simbolico, come il titano Prometeo citato in apertura del racconto (che nella mitologia greca dona il fuoco agli uomini contro il volere di Zeus, così quest’ultimo per punizione lo incatena per l’eternità).

Esperimento riuscito? Dipende dall’uso che si farà del film, perché l’opera adesso non è più del creatore e produce effetti una volta sganciata sulle platee… Proprio come avvenne per la bomba. Fu immaginata dapprima come traguardo scientifico – addirittura carichi dell’idealismo d’investirla del ruolo di jolly per spaventare Hitler e vincere la guerra a tavolino – mentre divenne, invece, asso nella manica da utilizzare davvero, su Hiroshima e Nagasaki. La presa di coscienza inizia nel momento del distacco, ben sintetizzata da Nolan nella sequenza che mostra Oppenheimer osservare le due atomiche imballate in casse di legno, allontanarsi sui camion.

L’invenzione si congeda dall’inventore. E da deterrente ideale per futuri conflitti, muta in terribile minaccia, baricentro della Guerra Fredda.

L’idealismo (messo in crisi) e il pacifismo sono gli aspetti sottesi al lungometraggio più politico di Nolan, che sceglie di confrontarsi con l’adattamento di un libro (il monumentale volume premio Pulitzer Oppenheimer. Trionfo e caduta dell’inventore della bomba atomica di Kai Bird e Martin J. Sherwin; Garzanti, 864 pp) sfidando il limite, per confezionare il suo progetto più ambizioso e rischioso: un film-arringa, dall’impianto processuale, orchestrando piani narrativi paralleli, come da sua ricetta della casa, ovvero quel modus operandi che non si limita ad intrecciare livelli d’esperienza, ma si fa ricerca di una dimensione ulteriore: in questo caso, in trasparenza, suggerisce uno sguardo sul cinema stesso e sul suo potenziale d’impatto sociale. 

Non è, infatti, semplicemente un film sulla bomba. La bomba è il film stesso, inteso come artificio per modificare per sempre la realtà, una volta recepito dalla società del proprio tempo e, a seguire, incasellato in una filmografia d’autore già evidentemente destinata a farsi testimonianza dei nostri tempi (manca solo l’Oscar, che di certo arriverà presto, per incidere ufficialmente il nome di Nolan nella storia del cinema, ma nel frattempo viene da pensare che tutto sommato sia superfluo, basta allineare titoli come Inception e Interstellar, pensare alla maestria dimostrata con la trilogia di Batman, o ricordare Memento, l’opera folgorante che nel 2000, a soli 30 anni, gli valse due candidature).

È innegabile che il suo cinema, inaugurando un approccio stilistico inimitabile per farsi vortice di misurata frammentarietà, abbia caratterizzato i primi decenni del XXI secolo, abituandoci a visioni ipertestuali prima e durante gli anni da neofiti digitali, mentre imparavamo a (con)vivere con Internet e quei poliedrici mondi che la Rete ci apriva, giorno dopo giorno, forse anche grazie all’allenamento mentale fornitoci dai film dell’enfant prodige di padre inglese e madre americana, cresciuto tra Londra e Chicago, prima di approdare a Los Angeles e hackerarne – almeno in parte – le consuetudini produttive commerciali (sbizzarrendosi con i formati di pellicola più costosi, in controtendenza con l’economica epoca digitale).

Il risultato sono una dozzina di capolavori, esplosi nella nostra mente, fino a condurci a riflettere, oggi, sul rapporto tra il cinema e la bomba: due artifici peculiari per il Novecento. Se il modo di associarli del genio di Kubrick fu realizzare Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba, al contrario Nolan si preoccupa. Si immedesima talmente tanto nelle preoccupazioni di Oppenheimer, da suggerire in controluce un parallelismo tra l’attività di ricerca e quella di regia.

A partire dall’assonanza dei due ruoli con le abilità da condottiero, visto che sia l’ordigno, sia il film vengono messi a punto grazie a un lavoro in team: la costruzione della cittadina/studio di Los Alamos pare l’allestimento di un set western, così come la comunità di scienziati con famiglia al seguito che popola il sito di ricerca sembra una reunion di cast&crew, con tanto di consueto applauso a fine riprese, benché il progetto portato a compimento non sia un lungometraggio, bensì l’atomica. E come dopo una prima visione, in seguito alla prima esplosione Oppenheimer è chiamato ad intervenire dinanzi alla platea e, osservandone i singoli volti, s’immagina le conseguenze del proprio operato (in una delle sequenze più memorabili, ma anche didascaliche).

Diviene così evidente quanto il dodicesimo film di Nolan sia, insomma, un trattato sull’etica (della scienza e del racconto) e sull’ego (dei ricercatori e dei creativi). E anche su come equilibrare queste due forze capaci di generare reazioni a catena.

Il regista pare ingaggiare una lotta contro la propria stessa hybris, ovvero quella tracotante superbia ben sviscerata nelle tragedie greche (l’indizio principe della consapevolezza della lezione dei classici, come anticipato, è l’ammiccare a Prometeo del motto d’apertura). E gli elementi tragici non mancano nel ritratto di Oppie (Oppy o Opje, curiosa la questione dei suoi nomi e soprannomi): dai raptus di giovinezza, alla trance visionaria per decodificare le forze dell’universo, passando per il legame intimo, morboso e travagliato con la giovane Jean Tatlock.

Ed è proprio l’irruenza dell’inerzia autoriale acquisita nei suoi primi meravigliosi 25 anni di carriera, a impattare sulla creatività di Nolan mentre di destreggia per restituire il ritratto di un Oppenheimer tormentato e perseguitato, che risulta umano e titanico al contempo, grazie alla magnifica interpretazione di Cillian Murphy. Credibile sia a colori, che in bianco e nero (ebbene sì, il gioco intellettuale del montaggio ha anche una dimensione estetica), l’attore brilla trainando il cast stellare, che vede emergere anche il lato più intimista di Robert Downey Jr. e regala il passaggio fugace e fulgido come una cometa di Florence Pugh. E poi Matt Damon, Emily Blunt, Kenneth Branagh, Casey Affleck, Rami Malek… tante le star alla corte del prometeico Nolan, in una coralità che fa da cassa di risonanza al protagonista.

Una moltitudine di voci che concorrono a rinforzare l’aspetto meno ameno dell’opera, un incedere verboso che a tratti s’impaluda nei meandri di dialoghi intricati, fitti in stile noir d’annata, con atmosfere talvolta troppo inspessite dalla sontuosa colonna sonora di Ludwig Göransson pressoché onnipresente (mini-spoiler: fantastica e in controtendenza la scelta del silenzio durante l’esplosione della bomba test).

Si dice che con gesto eretico per la nostra epoca Nolan si sia rifiutato di utilizzare gli effetti speciali CGI, preferendo filmare un’esplosione (non atomica, per carità, come suggerito da molti rumors, ma comunque vera). Evviva l’arte, ma – in un film che s’interroga sull’etica – come la mettiamo con l’impatto sul Pianeta di tale scelta?! È piccolo forse, ma concreto, quest’ultimo paradosso: mentre il mondo del cinema in Europa s’avvia verso protocolli green per abbattere le emissioni (peculiare il lavoro pionieristico di EcoMuvi, oggi realtà di riferimento per certificare la sostenibilità ambientale integrata dei set), oltreoceano la superpotenza si misura ancora in fuochi d’artificio… scatenati.

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APPROFONDIMENTI:

Un libro folgorante: Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Benjamín Labatut, 2021)