SQUID GAME – L’algoritmo dello stupore (parte 1)

Benvenuti nell’arena splatter.

Nella fossa dei leoni dove i giochi d’infanzia si trasformano in roulette russa. E dove la disperazione pare una posa esistenziale ineluttabile.

Ma sarà davvero tutto qui? O in Squid Game c’è dell’eroismo, nascosto, sul quale fare affidamento per non sentirci soltanto semplici vojeur?

Per scoprirlo ci vogliono circa 8 ore, tanto è il tempo necessario per vedere l’assai dibattuta nuova serie tv di Netflix. E poi sta a noi adulti decidere se, quando e con quali strumenti di avvicinamento, i più piccoli siano pronti a questa esperienza davanti allo schermo.

Una bella responsabilità, si dirà. Perché in fondo, anche noi siamo cavie dinanzi ad ogni nuova somministrazione d’immagini e storie. E ad ogni età, è lecito chiedersi quando e come (in quale situazione, con chi, con quale ritmo e modalità) si può essere pronti a gettare lo sguardo nel vuoto, sulla voragine gelida di quel che resta dell’animo umano. A provare, insomma, quel tipo di vertigine che ci tiene in scacco, ciclicamente, durante la visione di un “lungo film”, tale è Squid Game.

Infine, domandiamoci anche “perché”. Ovvero: a quale scopo farlo? 

La bella notizia (in un contesto libero) è che non ci sono risposte standard: le soluzioni agli enigmi variano in base alla sensibilità di ognuno. Alla personale propensione allo stupore, alle aspettative riposte nell’arte come rappresentazione della nostra epoca.

Una molla per spiccare il salto verso l’ignoto può essere, ad esempio, proprio il potenziale desiderio di ricercare nelle espressioni artistiche una certa dose di verità sul mondo. Un approccio, quest’ultimo, che rappresenta una tensione verso la conoscenza. Un’attitudine, certo, superata spesso, per molti, dalla semplice voglia di evasione, d’intrattenimento.

La serie sudcoreana creata e diretta da Hwang Dong-hyuk, appartiene alla categoria delle opere destinate a lasciare il segno e risponde ad entrambe queste prerogative: titilla il vojeurismo e stimola la predisposizione al volo pindarico intellettuale. Entrambi albergano in ognuno di noi, sebbene in dosi diverse. Si tratterà, quindi, di equilibrare queste pulsioni.

Superata la diatriba personale del premere play o passare oltre, ci tocca poi affrontare una più articolata sfida collettiva, quella per fare in modo che il messaggio venga metabolizzato: consiste nel far emergere un dibattito sociale capace di analizzare le motivazioni narrative alla base della crudeltà e delle efferatezze presentate sullo schermo. Esattamente come è necessario spiegare ai neofiti le ragioni della ferocia che emerge in numerosi passaggi dell’Odissea (riferimento non casuale, essendo centrali anche in Squid Game i temi della salvezza e del nostos, ovvero del ritorno a casa). Certo, nel canto degli aedi prima e sulla pagina poi, i versi epici non subirono il sovraccarico dell’estetizzazione della violenza che, invece, l’immagine consente e per sua natura restituisce. Le gesta narrate restano, in ogni caso, truci. E un parallelismo, guidato, non nuoce alle giovani menti d’oggi.

Bisogna far emergere l’etica dall’epica.

Squid Game spopola, infatti, soprattutto tra gli adolescenti (tant’è vero che ha conquistato in un solo mese il primato de “la serie più vista di sempre”: 132 milioni di spettatori nei primi 23 giorni, il 66% dei quali, pari a 87 milioni, hanno seguito tutte le puntate) benché non doppiata, dunque disponibile solo con i sottotitoli. Significa che la curiosità supera l’aspirazione alla comodità: una vittoria non da poco.

È catalogata VM 14, un confine che, si sa, risponde di fatto ad un unico scopo pratico: liberare dai pensieri chi detiene la responsabilità legale del prodotto, proprio come il famoso avvertimento a “non mettere il gatto in lavatrice”.

La palla decisionale passa dunque, inesorabile, al mondo degli adulti. Genitori, famiglie (e non dimentichiamo il ruolo delicatissimo di fratelli e sorelle maggiori, in queste situazioni), educatori e anche… semplici cittadini: insomma, la società civile!

Dividersi tra entusiasti e detrattori non è costruttivo. Oltre ad incuriosire ancor più gli indecisi, è un atteggiamento sterile che conduce a scambiare il nozionismo (la rete pullula di articoli – anche interessanti, ma di indubbia matrice “acchiappa-click” – dedicati a quanto è costata e che valore economico ha generato, a quanta violenza sta fomentando, ai rapporti tra Netflix e la Corea del Sud, ai gadget in vista di Halloween, fino alla possibilità di un sequel) per approfondimento. È di quest’ultimo che abbiamo bisogno, innanzitutto per rispondere ai quesiti precedenti: vale la pena guardare o possiamo fare cose migliori in 8 ore della nostra vita? È la critica (cinematografica e non solo) l’interlocutrice che può guidarci.

La seconda parte di questo articolo-focus su Squid Game (coming soon… è in fase di redazione e in arrivo nei prossimi giorni) vuol essere il tentativo, sintetico, di fornire alcuni spunti per decidere liberamente cosa fare, anche in netta opposizione al parere del critico, sulla base di alcuni dati concreti e non di una semplice esposizione al battage pubblicitario, al giornalismo strillato e alle lusinghe degli algoritmi di Netflix e dei diversi social network, che attraverso una dettagliata profilazione degli utenti reiterano l’invito a vedere ogni cosa che, dati alla mano, sia considerata in linea non solo con i nostri gusti e aspettative, ma anche semplicemente molto “in voga” nelle nostre cerchie o fasce d’età. 

Intanto, per cominciare, vale la pena adottare questa prospettiva: non contestare, ma contestualizzare.

La dura verità è che non ha senso l’allarmismo sui contenuti espliciti, visto anche il variegato contesto web vissuto quotidianamente dai giovanissimi: l’unica via è la costruzione paziente di un contesto culturale di riferimento che possa far loro leggere in modo più profondo la serie, farne apprezzare le fonti d’ispirazione, farla considerare non soltanto per ció che racconta, ma per come lo esprime e anche solo perché si prende la briga di analizzare determinate derive dell’umanità, denunciando lo smarrimento collettivo.

Si diceva, qualche riga più in alto, “premere play o passare oltre”: questo è uno dei veri nodi della questione, la disponibilità immediata dei contenuti. E con immediata non dobbiamo intendere solo un abbattimento delle attese rispetto ai tempi della sala cinematografica, ma anche “senza mediazione” dell’esperienza fatta attraverso un processo decisionale articolato, che un tempo prevedeva calcoli di orari e spostamenti, tutti tasselli che in modo naturale e fisiologico facevano da filtro alla bulimia di immagini oggi non solo concessa, ma resa “la norma”. Quando è tutto disponibile, si sceglie in un attimo. Talvolta il dito clicca addirittura più veloce del pensiero. Un processo utile solo al mercato e alle leggi dei grandi numeri, non certo all’individuo e al sedimentare della cultura. L’esperienza spettatoriale, se non ragionata, è oggi come un giro sulle montagne russe con l’illusione di poter gustare il panorama.

E un’odissea, oggi, è anche il viaggio dello spettatore verso i contenuti di qualità, travagliato dai canti di sirene degli algoritmi che ne deviano la rotta del ritorno verso un autentico senso di stupore.