The Ferragnez: e se nella scatoletta tv ci fosse “merda d’artista”?

Vivono nella torre d’avorio, ma sono come noi. Umani. Lei più dolce, tenace e simpatica di quanto una foto in lingerie possa far intuire. Lui più tormentato e fragile, in lotta con antiche insicurezze d’infanzia e d’adolescenza bullizzata. Sono i Ferragnez, coppia in crasi più che in crisi, che si confessa con un terapeuta senza volto (ma con una voce rassicurante ed autorevole) che in fondo rappresenta tutti noi, gli spettatori “non” paganti del loro pseudo Truman Show: la serie tv The Ferragnez.

L’analogia con il film cult di Peter Weir (e ricordiamolo: scritto da quel genio di Andrew Niccol!) è data, più che dal vivere in perenne vetrina, soprattutto dall’esplicitazione della bolla p(l)atinata che contiene Chiara e Federico. È un ambiente di vita circo-scritto (del resto verrebbe da dire: è una serie tv, bellezza!, non un documentario), dove affetti e aiutanti coincidono, formando una corte che protegge la famigliola dalle miserie organizzativo-burocratiche della quotidianità: mai un elettricista o un idraulico per casa, nemmeno un corriere che suona il campanello (il colmo per una serie di Amazon Prime Video), mai che si scenda a portare il cane a fare la pipì… ! Giusto un paio di volte, sullo sfondo, si intravede una babysitter per l’adorabile figlioletto Leo (mai un capriccio: la sua più grande rivoluzione è scappare sotto il tavolo per non farsi prendere le misure dai sarti per l’abitino di Versace uguale a quello indossato da papà sul palco dell’Ariston, a Sanremo 2021).

Nonostante tutto, ci sembra comunque di vivere la loro intimità. E ci piace così: star seduti in prima fila a goderci lo spettacolo della vita privata della famigliola più glamour del momento (un lungo momento, effettivamente, grazie a mosse mediatiche ben calibrate). I Ferragnez rappresentano il corrispettivo di una coppia di nobili d’altri tempi, hackerata da un duo che per estetica appare modaiolo e rock’n’roll, ma aggira i rischi di queste etichette sul fronte dell’etica, risultando bonificato da ogni eccesso, dunque perfettamente mainstream.

È la high society per tutti, senza bisogno di titoli nobiliari o investiture. Con in più quel pizzico d’aura di rivalsa sociale tipico di chi parte dalla provincia dell’impero (Cremona lei, Rozzano lui) e conquista le stanze del potere (almeno mediatico). Una parabola che fomenta negli spettatori non solo il concedersi di sognare ad occhi aperti, ma l’idea di poter emulare il percorso d’ascesa, grazie alla giusta alchimia tra intraprendenza e social network. È l’ultima versione del sogno americano, all’ennesima potenza, rivisto e corretto grazie a uno storytelling alquanto pervasivo e crossmediale.

È così che, senza sentirci stalker o voyeur (come invece sui social un po’ ci capita, quando diamo sfogo alla curiosità e passiamo in rassegna in modo troppo meticoloso i profili altrui), la tv ci consente un cambio di prospettiva: entriamo nella vita di due persone con la serenità di percepirle come personaggi, perché ci aspettiamo che succeda qualcosa, che ci sia un arco narrativo a medio-lungo termine (insomma: sono 8 puntate), cosa che invece manca su Internet, dove tutto fluisce e si rimescola, come onde che s’infrangono sugli scogli, richiamando la nostra attenzione per un attimo, giusto finché la schiuma liberata nell’aria non ricade, lasciando spazio per un nuovo breve spettacolo. Che tutto ciò sia forse, in fondo, nient’altro che La Schiuma dei Giorni, per dirla con Boris Vian e Michel Gondry?

E se, dunque, seguendo i profili online dei due nuovi Re Mida, un post dopo l’altro, la sensazione è di partecipare a una storia in loop (come “C’era una volta un re, seduto su un sofà, che disse alla sua serva: raccontami una storia. E la serva incominciò: C’era una volta un re…”), quello che, invece, Amazon ci consegna a domicilio è un racconto lineare, con un inizio, una fine e un evolversi di situazioni: eccoci dunque nell’attico del CityLife Milano, in viaggio a Courmayeur, al party baby shower di Chiara, nel backstage di Sanremo, come fossimo ospiti speciali nel controcampo delle immagini e delle Stories di Instagram che quasi 26 milioni di follower per lei e oltre 13 mln per lui (dati ad oggi, dic 2021) osservano abitualmente come fossero le vetrine di una boutique, per vedere se sono cambiate, se c’è merce nuova, cosa i due sovrani hanno appena trasformato in oro. Perché una serie tv crea aspettative narrative. Quindi possiamo metterci comodi e farci trasportare.

The Ferragnez è, infatti, il livello successivo della iper-esposizione mediatica della coppia e probabilmente, oltre a gratificare i molti fan, sarà linfa per attirarne di nuovi, perpetrando il meccanismo dello spettacolo, come è naturale che sia. L’importante è guardare la serie con la consapevolezza che si tratta di un prodotto audiovisivo cucito addosso ai personaggi come un abito sartoriale, dove non solo la trama, ma ogni dettaglio (dagli stacchi di montaggio al commento musicale, passando per la censura applicata al logo – presumibilmente Nike – di alcuni abiti di Fedez, che viene offuscato) sono frutto di progettazione e decisioni.

Andy Wahrol per anni (dal 1976 al 1987) ha tenuto dei diari dove appuntava i resoconti delle sue giornate. Per quanto fosse circondato dal jet set, la lettura risulta noiosa. Perché la realtà – che lui ben aveva intuito scivolare veloce verso un dilagante desiderio di celebrità – è fatta anche di dettagli insignificanti, di attese e, appunto, di noia. Solo il cinema (e oggi la serialità tv) può creare la magia di distillare il meglio (o anche il peggio, quando utile alla narrazione) della vita e renderla avvincente. Senza nemmeno il bisogno di andare in profondità, perché a noi spettatori/follower bastano brandelli di intimità per sentirci in confidenza con chi abita sullo schermo. Si tratta, addirittura, di banalità trascurabili, che tuttavia percepiamo autentiche. Aneddoti dal facile potenziale virale, che possano trasformare gli spettatori in amplificatori della rilevanza dei personaggi, che si tratti elogiarli, criticarli, l’importante è – si sa – che se ne parli. Un esempio? La scena dell’episodio 3 (min 19’30”) non tagliata, quindi volutamente inserita ritenendola utile al progetto narrativo, dove Fedez, durante una gita romantica a Courmayeur, mentre Chiara si sdilinquisce in commenti come “Che bello qua, wow, very bello!”, insiste con l’annuncio “Amore, devo fare la cacca”. Risultato: un apparente lampo di realtà, con lei che afferma “t’arrangi”, lamentandosi del coniuge e alludendo al fatto che la stessa scenetta accada cinque volte al giorno.

La scatola televisiva, insomma, si trasforma in opera d’arte alla Piero Manzoni: che ci sia dentro davvero la merda d’artista non è cruciale, l’importante è crederlo possibile. A noi la scelta: lasciarci cullare dallo storytelling, oppure aprire la scatoletta e guardarci dentro, con il rischio di sporcarci, ma anche l’opportunità di disinnescarne il potere ipnotico.