C’era una volta il futuro. (Quando? In Italia accadde nel “1960”).

La dolce vita, più che un film, è stato un periodo. Si è trattato di un fenomeno in grado di definire una serie di circostanze rappresentative di un clima sociale e culturale italiano, che, una volta individuate, iniziarono inesorabilmente a sfuggire, dileguandosi nel flusso degli eventi. Svanirono, restando al contempo un ricordo mitico e un’aspirazione, esattamente come il coevo miracolo economico. Oggi, in condizioni di crisi, per contrasto è facile ritrovarsi a ingannare il tempo nel ricordo di un’età dell’oro ormai mitizzata. 

Il libro di Oscar Iarussi C’era una volta il futuro. L’Italia della Dolce Vita, edito da Il Mulino, ripercorre le premesse di un futuro promettente e le successive delusioni inferte al popolo italiano dalla Storia.

L’autore osserva la realtà odierna, definendola felliniana in quanto satura di grottesco e dominata da figure caricaturali, fino a realizzare che “è a La dolce vita che si deve tornare per provare a capire come mai un paese avido di futuro nei primi anni Sessanta appaia oggi impecorito, rassegnato e stanco, forse pago del ricordo senile o della pallida imitazione, spesso parodistica, della sua fioritura leggendaria” e si chiede: “che cosa c’era davvero in quel film sotto la patina dello scandalo?”, quale Italia raccontasse, cosa sia successo.

Iarussi individua una sovrimpressione tra cinema e società, che nella definizione “dolce vita” vede compiersi perfettamente. Impossibile scindere l’immaginario felliniano ispirato alla realtà dell’epoca dal ricordo stesso di quel periodo storico.

La simbiosi tra il popolo italiano e la propria rappresentazione sul grande schermo è sancita dal film. Il boom economico è reale, l’entusiasmo delle genti è tangibile e i modelli comportamentali dei “nuovi italiani” che accedono ai consumi di massa vengono celebrati dai media. Cinema, radio, riviste e quotidiani sono gli specchi magici capaci di generare un’impressione di benessere, che emoziona ed etichetta per sempre l’esordio degli anni Sessanta come un eden.

Il “c’era una volta” del titolo fa pensare a un omaggio al passato. Ha volutamente sapore di favola, ma il tempo verbale imperfetto associato al sostantivo futuro evoca un sentimento inedito: la nostalgia della speranza.

Il libro infatti, più che un ossequio a un mondo che fu, è una mappa del fallimento di un’ideologia di progresso, disegnata tramite gli indizi individuati nel capolavoro di Fellini. È così che l’attenzione si focalizza su due serie di dati di segno opposto: sui simboli del benessere e sui primi sintomi di un malessere.

Nei primi anni Sessanta tutta una nuova geografia mentale popolare è in fase definizione. Una cosmogonia che verrà utilizzata dagli italiani per orientarsi nella vita, costellata di marchi commerciali e vissuta al ritmo di slogan e jingle. Solo nel processo diegetico, all’interno delle inquadrature del cinema d’autore, il simbolismo diviene un monito, piuttosto che l’enunciazione di un nuovo sistema di assiomi.

C’è un documentario realizzato da Gabriele Salvatores, montando materiali d’epoca delle Teche Rai, al quale è impossibile non pensare leggendo il paragrafo del libro dedicato all’anno 1960: il film si chiama proprio 1960 (ed è visibile in versione integrale cliccando sul link). È interamente realizzato con filmati originali di quel periodo, accompagnati da una voce fuoricampo che aggiunge un elemento di fiction, raccontando la storia (immaginata e sceneggiata, come in un radio-dramma romanzesco) di una famiglia emblematica, utile a coinvolgere gli spettatori, stimolando l’immedesimazione.

Nelle immagini si ritrovano gli sguardi e l’impeto di un popolo entusiasta, diviso tra giovani competitivi e nuovi vitelloni (quei personaggi felliniani nati sulla falsariga dei “vitellini” della Riviera Romagnola, gli emuli di Casanova che si dedicano a conquistare le turiste straniere durante la stagione balneare). Rivendendo invece le sequenze di Fellini, i personaggi risultano quasi meno feroci della realtà documentata, voraci sì, ma strozzati da inquietudini e quesiti sul futuro, su tutti: al di là dei fremiti estivi, quale donna scegliere come compagna per la vita? O, addirittura, per quanto possa ancora durare il festoso presente che inizia a essere percepito come una sospensione della realtà, come un paese dei balocchi. 

I febbrili cambiamenti e l’impeto sono confinati sullo sfondo della narrazione, come a descrivere un contesto che è già una danza macabra. Al centro del film c’è una domanda sul futuro anteriore, una questione intima celata nell’individualismo e nella solitudine dei personaggi. Resta quasi inespressa verbalmente, ma s’insinua perfettamente tramite le immagini nella mente dello spettatore attonito, proprio come accade ai personaggi felliniani dinanzi allo strano inquietante pesce che compare nel finale de La Dolce Vita.

Quel mostro marino (mutuato forse dalla letteratura) si insinua tra gli italiani e l’orizzonte segnato dalla linea retta del mare. Tra i nostri avi e il futuro, in modo che essi si scoprano da quel momento in avanti in grado di raccontarci solo il sogno di un domani, che resta irraggiungibile così come immaginato. Così impossibile da indurre i sognatori a iniziare a vivere un tempo inerte consolando le generazioni successive con racconti epici, che suonano però come fiabe perchè iniziano sempre con “c’era una volta”… il futuro.


Al termine dell’interessante e condivisibile analisi di Iarussi e della visione in parallelo del film di Salvatores, l’amarezza può essere vinta solo ripensando all’intera filmografia di Fellini. Accade perché nonostante il maestro dell’amarcord fosse un intellettuale capace di non sottrarsi al compito di inserire nelle proprie opere le giuste dosi di lucido cinismo, egli non mise in discussione l’idea di perdere la fiducia nel domani. Piuttosto che capitolare, preferì impegnarsi a smascherare i paradossi del presente con ironia, continuò a irridere le miserie di un’umanità preoccupata a inseguire un futuro malato, anche per colpa dei media. Esempi emblematici di questa doppia abilità furono l’attacco alla televisione e a tutta la comunicazione pubblicitaria in Ginger e Fred (1985) e l’incontro tra i maturi Marcello Mastroianni e Anita Ekberg – commovente omaggio e citazione esplicita de La Dolce Vita – messo in scena in Intervista (1987).