L’ASTRA di Como rinasce grazie ad una staffetta di spettatori.

Un giorno, all’improvviso, ho sentito vibrare le mie radici comasche, farsi notare nell’intreccio bresciano-pugliese che le custodisce. Era autunno, primi anni Duemila, stavo finendo l’università e mi ero già appassionato di critica cinematografica, scrivevo sul mensile [duel] e su web. Passò a trovarmi mio zio Giorgio, di ritorno da Como, per portarmi un pacco di libri. Di cinema!

«Li ha scritti don Giuseppe, il fratello del nonno. Te lo ricordi? L’hai conosciuto da bambino. Poi ci fu la sua lunga malattia, anni di ricoveri ospedalieri, e ci lasciò nel 1992». 

Rimasi senza fiato dinanzi a quei testi teorici, tra i quali c’era anche un dizionario in 3 piccoli volumi: 100 registi, che rendeva conto dei migliori autori dell’epoca. Fu così che iniziai a scoprire la meravigliosa avventura che a partire dal 1953 aveva visto protagonista questo mio familiare, che ho avuto la grazia di conoscere attraverso i suoi tanti scritti ed esaminando documenti, lettere, telegrammi e fotografie conservati nell’archivio dell’Ufficio Diocesano Spettacolo di Como, dove nel 2004 trascorsi settimane di studio, per raccogliere materiale per quella che sarebbe diventata la mia tesi di laurea.

Ad emergere da tutti quei ricordi fu la figura di un vero condottiero, un uomo in grado di guidare una comunità alla scoperta della magìa del cinema, svelando strumenti per analizzarlo. Non solo con gli scritti, soprattutto attraverso il dibattito in sala, gli ospiti con i quali dialogare dopo le proiezioni (tra le foto-ricordo rimasi stupito nello scoprire don Giuseppe accanto ad Alberto Sordi, Aldo Fabrizi, Vittorio De Sica) e l’entusiasmo nel far vivere l’esperienza della visione collettiva e del confronto successivo tra gli spettatori.

Fu emozionante trovare lettere di ringraziamento, per i libri di cinema ricevuti, firmate da Federico Fellini o Alessandro Blasetti. Tuttavia a farmi davvero sobbalzare sulla sedia fu una scoperta, emblematica della passione di don Giuseppe: i viaggi turistico-culturali, che organizzava negli anni Settanta con gli iscritti al cineforum (a riprova anche dei legami comunitari costruiti). Erano itinerari sulle tracce del grande cinema, con la volontà di sperimentare «un nuovo modo di intendere la cultura».

Nel 1971 portò 171 comaschi negli Stati Uniti, da New York a Hollywood, per poi tornarci una seconda volta nel 1974, da Miami allo Space Center della Nasa di Capo Kennedy (come si chiamava allora Cape Canaveral) per poi far rotta su New Orleans, Chicago e Disney World. Ad intervallare i due viaggi americani una formidabile esperienza (che pensando ai quei tempi e ad un sacerdote come guida, pare davvero fantascienza)… quella della scoperta dell’Unione Sovietica con una comitiva di 140 cine-turisti! E poi l’India e il Nepal nel 1973. In seguito l’Africa nel 1976 (destinazione Kenya e Tanzania) e nel 1979 Messico, Yucatan e Guatemala.

Oggi vedo rinascere l’Astra, una delle sale cittadine che furono culle di questa meravigliosa avventura sociale, della quale ancora resistono i frutti, come prova l’impegno delle tante persone attivatesi per la raccolta fondi, che terminerà alla fine di gennaio, con un obiettivo ambizioso già raggiunto (75mila euro, grazie a 850 donatori, ma la campagna resta aperta perché le sfide della riapertura saranno tante e anche risorse extra risulteranno di certo utili).

Un successo incredibile, soprattutto considerando le insidie di questo periodo storico: l’ennesima conferma da parte di una città speciale, eroica nel difendere quel tipo di cultura capace di favorire la coesione sociale, grazie al senso critico del sapersi specchiare e confrontare con le immagini e le storie. Già ai tempi di don Giuseppe l’edificio fu ristrutturato (in tre step nel 1959, 1962 e 1964) come altre sale della comunità, spesso coinvolgendo la popolazione, facendo sentire gli spettatori partecipi nella salvaguardia dei luoghi dove vivere esperienze insieme.

Un grazie di cuore e tutta la mia ammirazione a coloro che stanno portando avanti, in staffetta, quella che mi pare il corrispettivo culturale della fiamma olimpica: la luce di un cinematografo che ha ancora tanto da raccontare.